Juneteenth non è la tua festa - Montague Ep. 09
Il 10 novembre del 2016, due giorni dopo i risultati elettorali che avrebbero cambiato per sempre la storia degli Stati Uniti, Childish Gambino e la Glassnote Records hanno annunciato l'uscita del suo nuovo disco, "Awaken, My Love" - che in principio pare dovesse chiamarsi "Operation Highjump!". L'album, che entrerà in brevissimo tempo nella cultura popolare nera - "Redbone", uno dei singoli di punta del disco, è anche il pezzo che apre "Scappa - Get Out" di Jordan Peele - viene comunicato con un tweet molto semplice, che riporta il titolo e la foto della cover. Proprio la cover, nel tempo, è diventata uno dei motivi di attenzione del disco: realizzata da Ibra Ake - uno dei più talentuosi giovani creative director neri - il lavoro è ispirato a "Maggot Brain" dei Funkadelic, a cui il disco di Gambino deve tantissimo anche dal punto di vista musicale. Non solo: dietro quella cover, e al copricapo che ne fa da protagonista, c'è anche una bella storia raccontata da Pigeons&Plane in questo video. Tuttavia, la cosa più particolare dell'annuncio di "Awaken, My Love" è stata un'altra: prima di quel 10 novembre, tutto il mondo (o almeno tutto il mondo dei fan di Gambino) aveva già visto quella cover nel nono episodio di Atlanta di qualche settimana prima.
Ciao, bentornati su "Montague", una newsletter di Francesco Abazia (che sarei io) in cui ogni due settimane, partendo da un episodio di Atlanta, si prova (o meglio, io provo) a raccontare qualcosa sull'America o sulla black culture. Ogni tanto, come capitato di recente, potreste trovarci qualcosa di diverso, ma comunque in qualche modo collegato ai temi di cui sopra.
Siete nuovi? Qui potete rileggere l'ottava puntata di "Montague", in cui si parla soprattutto di una delle cose più famose di Atlanta - così tanto da essergli valsa un brutto soprannome - gli strip club, e del loro ruolo nella cultura locale.
Partiamo? Direi di sì, nel frattempo non dimenticate di inoltrare questa mail agli amici e/o invitarli a iscriversi a Montague inviando questo link. La prima stagione è quasi finita ma la seconda sarà ancora meglio.
N***a, devo davvero spiegarti cos'è una allitterazione?
«Juneteenth sembrava materializzarsi dal nulla, se davvero una festa può fare una cosa del genere. Nel pantheon delle feste nazionali, delle celebrazioni locali e delle osservanze religiose, non è mai stato nemmeno un blip sul mio radar. Anche se quest'anno sarà il 155 ° anniversario della festa, Juneteenth non è stato menzionato nei miei libri di testo scolastici e io, da giovane donna di colore, non conoscevo nessuno che lo osservasse. Non sapevo nemmeno cosa fosse fino a pochi anni fa, quando mi sono imbattuta in una sorta di elenco di celebrazioni, sia note che più oscure. Da qualche parte alla fine di giugno - insieme alla Giornata nazionale della ciambella (una delle preferite), alla festa del papà e al solstizio d'estate - c'era Juneteenth». Comincia così un pezzo di Maya Phillips sul New York Times, che racconta di come la televisione e il black entertainment abbiano di fatto "salvato" e reso mainstream una celebrazione antichissima ma che per gran parte della sua storia non ha fatto - minimamente - parte dell'immaginario pop americano. Assieme a tantissimi altri aspetti della black culture.
Ma andiamo con ordine: cos'è Juneteenth? Juneteenth è l'anniversario con cui si celebra la fine della schiavitù, o meglio, ad essere più precisi, la liberazione dell'ultimo schiavo nero. Il 19 giugno (da qui il nome) a cui si fa riferimento è infatti quello del 1865 e non quello del 1863, l'anno in cui Abraham Lincoln ha firmato il Proclama di Emancipazione, mettendo - sulla carta - fine alla schiavitù. Ci sono voluti però due anni e mezzo, perché il Generale Gordon Granger arrivasse a Galveston, in Texas, per annunciare la fine della schiavitù e liberare "l'ultimo schiavo nero". E' anche per questo motivo che il Texas è uno degli Stati dove la celebrazione - che viene anche chiamata "Freedom Day" - è particolarmente sentita. Il Texas è stato inoltre il primo stato a riconoscere Juneteenth come festa nazionale, nel 1980, e lo stato i cui senatori sono più attivi nella promozione di Juneteenth come festa federale, per alcuni al pari del 4 luglio, il giorno dell'indipendenza. Come ha ricordato Stacy Fernandez sul Texas Tribune, lo scorso anno: «il senatore degli Stati Uniti John Cornyn, anziano senatore repubblicano del Texas, ha annunciato che introdurrà una legislazione bipartisan per rendere Juneteenth una festa federale. Ma non è il primo parlamentare texano a proporre di commemorare l'emancipazione degli schiavi in Texas. La rappresentante degli Stati Uniti Sheila Jackson Lee, una democratica di Houston, ha presentato una risoluzione - come ha fatto negli ultimi otto anni - con lo stesso obiettivo. Con 202 cosponsor, i sostenitori si sono quadruplicati quest'anno rispetto agli anni precedenti. Ma se Jackson Lee è stata una delle più accanite sostenitrici al Congresso di Juneteenth negli ultimi anni, tentativi legislativi simili risalgono almeno al 1996». Eppure Juneteenth era praticamente una festa sconosciuta fuori dagli Stati Uniti, e non è che godesse di grande fama neanche all'interno degli USA. Cos'è successo quindi? E' stato forse Donald Trump ad aver reso Juneteenth celebre decidendo di spostare il suo rally dal 19 al 20 giugno lo scorso anno? La risposta è ovviamente no, ma era stato lo stesso ex Presidente a suggerirlo durante una intervista col Wall Street Journal: «Ho fatto qualcosa di buono: ho reso Juneteenth molto famoso. In realtà è un evento importante, un momento importante. Ma nessuno ne aveva mai sentito parlare».
Il nono episodio di Atlanta si chiama proprio Juneteenth e si svolge quasi interamente all'interno di una enorme "mansion" in cui Monique, una amica molto influente di Van sulla quale vuole assolutamente fare colpo, da la più grande festa di Juneteenth mai vista. Tutto all'interno del party è esasperato: il bar serve solo cocktail che abbiano un qualche riferimento a Juneteenth (e quindi alla schiavitù) nel loro nome e alle spalle del bartender campeggia una riproduzione di "The Problem We All Live With". Il dipinto di Norman Rockwell - che ritrae la piccola Ruby Bridges mentre si reca in una scuola bianca - è considerato una delle opere più importanti della de-segregazione e in generale dei diritti civili in America. La sua rilevanza è talmente grande che Barack Obama chiese di tenere per qualche mese il dipinto all'ingresso dello Studio Ovale e che Johnnie Cochran, il celebre avvocato difensore di O.J. Simpson, utilizzò il quadro per rendere più "nera" la casa di O.J. durante il processo.
Anche in "Juneteenth" il quadro ha pressapoco quella funzione, anche perché il proprietario di casa, Craig, il marito bianco di Monique, è tanto ricco quanto ossessionato dalla cultura africana e afro-americana, tanto da consigliare a Earn un viaggio purificatore in Africa («è la tua madrepatria, dovresti andarci») e da aver realizzato un piccolo dipinto ispirato da una massima di Malcolm X («è una interpretazione interessante di quella citazione», commenta in modo ironico Earn. L'intera vita di Craig è intrappolata in una strana ossessione per la cultura africana, che ha oltrepassato l'idea di appropriazione culturale, e che lo ha spinto a sposare una donna nera e a tokenizzare in maniera compulsiva tutti gli afroamericani con cui entra in contatto. Il suo atteggiamento, per Earn, potrebbe quasi avere un senso se Craig fosse uno studioso, un archeologo di storia africana o qualsiasi altra cosa simile. Ma Craig è in realtà solo un optometrista molto ricco, a cui piace fare la slam poetry e rimproverare alla nonna 95enne di Monique di cucinare il cavolo nero nel modo sbagliato - il cavolo nero, "collard green" è uno degli ingredienti che compongono il cosiddetto soul food, ed è molto diffuso soprattutto al sud e in Georgia, dove viene preparato il “Southern-Style Collard Greens”. Nell'episodio, anche Earn e Van restano abbastanza sorpresi dalla festa organizzata da Craig e Monique, messa a punto come probabilmente non avevano mai visto. E non solo loro.
«In seguito alle uccisioni di Floyd, Ahmaud Arbery e Breonna Taylor, un vero senso di comunità è stato rivelato tra le ondate di protesta che si estendono in tutto il paese e gruppi che spingono per affrontare le ingiustizie sistemiche. Non direi che è una festa, ma ci sono amici e ci sono grida, canti e balli. Ho pensato che forse celebrare Juneteenth non è riflettere su una parodia, ma è più un atto di sfida mascherato da un festoso raduno di parenti», aveva scritto sempre nel suo pezzo Maya Phillips, sottolineando come il livello di popolarità e attesa raggiunto dalla festa nel 2020, probabilmente, non avesse eguali. «Penso che Juneteenth sia un po' diverso ora. È un'opportunità per le persone di riprendere fiato su quello che è stato questo incredibile ritmo di cambiamento che abbiamo visto nelle ultime due settimane», aveva detto Mark Anthony Neal, un attivista della Duke University sempre al NYT. C'è una sorta di strano e ironico parallelismo tra l'ultimo Juneteenth, quello appunto del 2020, è quello mostrato nell'episodio di Atlanta. Una attenzione esagerata, senza precedenti, in qualche modo non calcolata e spiazzante.
Sul Los Angeles Time Lorraine Ali aveva scritto di come la "black TV" avesse enormemente aiutato a diffondere la popolarità della festa. Se Atlanta era stato il primo show a portare in scena "Juneteenth" subito dopo gli aveva fatto eco "black-ish", il popolare (più negli USA che in Europa, a dir il vero) show di Kenya Barris che aveva rappresentato la festa attraverso una sorta di musical, parzialmente ispirato ad "Hamilton". Durante l'ultimo Juneteenth, poi, HBO aveva reso visibile a tutti "Watchmen", lo show televisivo in cui, tra le altre cose, si parlava del massacro di Tulsa (qui c'è un gran lavoro del The Atlantic che merita di essere visto e letto), fino a quel momento non così tanto conosciuto. «La semplice esistenza di queste due produzioni di mezz'ora è la prova tangibile di come la spinta per la diversità sullo schermo abbia cambiato la storia, o almeno l'ha resa più rappresentativa e onesta. La rappresentazione nera dietro la telecamera, con produttori, società di produzione, autori e attori che hanno creato i personaggi che interpretano, ha portato a contenuti sceneggiati di alto profilo che illuminano un evento sismico che è stato minimizzato o del tutto sepolto dalla storia dei libri bianchi», aveva scritto Ali.
Ma Juneteenth, oltre che una questione culturale, è destinata a diventare sempre di più una questione politica e di rappresentazione. A seguito delle oramai celebri dichiarazioni di Trump, tra i circuiti dell'alt-right e dei supporter trumpisti cominciò a circolare l'idea che Obama non avesse mai menzionato la celebrazione nei suoi otto anni di Presidenza. La notizia, non era, ovviamente, vera. Obama fu anzi uno dei pochi presidenti a rilasciare un comunicato ufficiale dalla Casa Bianca durante la festa, oltre a esser stato - nel 2003, molto prima di diventare Presidente - tra i principali sponsor della SB1028, una legge che ha reso Juneteenth una festa statale riconosciuta in Illinois. Ad oggi, tutti gli stati americani tranne North Dakota, South Dakota, Hawaii e Montana, riconoscono il 19 giugno come festa statale. L'obiettivo però, è quello di renderla una festa nazionale, una "paid holiday", per equipararla quanto più possibile al 4 luglio. Lo scorso anno si è parlato molto di questa possibilità, anche a seguito della conferenza stampa del Governatore della Virginia Ralph Northam che, spalleggiato da Pharrell Williams, ha richiesto a grand voce il riconoscimento della festa. Come ha scritto Doug Criss sulla CNN nel 2019, «Lo scorso anno il Senato degli Stati Uniti ha approvato una risoluzione che riconosce il "Juneteenth Independence Day" come festa nazionale, ma non è stata ancora approvata alla Camera. La National Juneteenth Observance Foundation, un'organizzazione con sede nel Mississippi, ha lavorato per anni per far riconoscere o osservare Juneteenth come festa nazionale». Anche lo scorso anno Corey Booker ha proposto qualcosa di simile.
Dove non è arrivato il Governo Federale degli Stati Uniti, tuttavia, sono arrivate le corporations americane che, nel 2020, si sono affrettate in massa a istituire per il 19 giugno un giorno di festa. Il caso più eclatante è stato quello della NFL, che ha annunciato che tutti gli uffici sarebbero stati chiusi per «riflettere sul nostro passato ma soprattutto per costruire un futuro migliore», ma tra Adobe, Google, Nike Inc., Tesla e Spotify sono davvero poche le grandi aziende che non hanno seguito. Probabilmente, prima o poi Juneteenth diventerà davvero una festa nazionale, forse un giorno sarà davvero importante come il 4 luglio. L'idea di "reparations" che sottende quella richiesta, e la potenza della liberazione economica che una "paid holiday" sottende, è comunque secondaria all'enorme potere storico che Juneteenth detiene. Lo ha scritto benissimo Vann R. Newkirk II sul The Atlantic: «La memoria è lo scopo di Juneteenth. Le testimonianze di persone ridotte in schiavitù, così come i loro figli, nipoti e lontani discendenti, sono parte integrante della festa. Nel prevedere che la comunità nera avrebbe raggiunto l'uguaglianza o sarebbe stata eliminata "radice e ramo", Du Bois ha sottovalutato la forza della memoria, che ha permesso alla comunità nera di resistere. Juneteenth, si impadronisce della narrazione, ricordando al paese il suo debito originale e i debiti che ha accumulato da allora. E questo giugno, quel promemoria sarà consegnato nella sede del potere americano. Questo è, ed è sempre stato, lo scopo più alto del giubileo: fornire un resoconto morale».
Nella nona puntata di "Montague" abbiamo parlato di Juneteenth... ma di cos'altro avremmo potuto parlare?
Durante il loro surreale dialogo, dopo aver quasi rimproverato Earn per non essere mai stato in Africa («a cosa stavi pensando?»), Craig prova a indovinare le sue origini, «da dove arrivano i tuoi antenati? Congo? Costa D'Avorio?», fino alla più specifica «southeastern Bantu region». Provando a mettere da parte per un attimo l'idea che il «tu da dove vieni?» rappresenti in realtà una micro-aggressione (spoiler, nell'80% dei casi lo è), la domanda di Craig nasconde in realtà un problema di fondo, a cui si arriva attraverso la risposta di Earn: «Non ne ho idea... c'è stata questa cosa spaventosa chiamata schiavitù e la mia intera identità etnica è stata cancellata, quindi...».
Viene definita "brick wall", "muro di mattoni", la difficoltà sistematica degli afroamericani a risalire alla genealogia della propria identità. Come scrive Nicole Ellis sul Washington Post: «Per gli americani che discendono da africani ridotti in schiavitù, le radici dei loro antenati sono spesso un mistero. Gli alberi genealogici si oscurano dopo cinque o sei generazioni, un promemoria del fatto che neanche 150 anni fa i neri non erano considerati persone. I genealogisti si riferiscono a questo come "il muro di mattoni", un ostacolo nel lignaggio afroamericano che risale al 1870 quando il censimento federale iniziò a registrare i discendenti africani - 250 anni dopo che furono trasportati in catene per la prima volta in quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti. Prima di allora, le loro vite esistevano sulla carta solo come proprietà di un'altra persona. Per penetrare nel muro di mattoni, i neri americani devono spesso fare affidamento sui nomi dei proprietari dei loro antenati». Il "middle passage" ha reso di fatto impossibile per tantissimi afroamericani provare a risalire alle proprie origini: i nomi venivano cancellati e gli schiavi che diventavano liberi spesso lo facevano utilizzando il nome del loro ex-padrone. L'identificazione dell'identità razziale degli afroamericani è difatti difficilissima, se non impossibile, fino ad arrivare al punto per cui il test del DNA per gli afroamericani ha cominciato ad avere un significato totalmente diverso. Ma questa, come sapete, è un'altra storia.
Montague per oggi finisce qui, ci risentiamo tra due settimana per parlare - più o meno - dell'ultimo episodio di Atlanta. Dopo di allora mi prenderò una piccola pausa, di cui vi parlo tra due settimane.
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